Chi è il Fixer nelle zone di guerra? Più di un inteprete
Ci siamo sempre chiesti come facessero Lucia Goracci e gli altri inviati della stampa italiana e internazionale a trovarsi in poche ore dall’altra parte del mondo. Attraversano territori sconosciuti e pericolosi e passano indenni (non sempre) da posti di blocco dove soldati minacciosi li interrogano in una lingua incomprensibile. Eppure, si trovano sempre sul luogo giusto, al momento giusto e sono sempre pronti e preparati a raccontarci in dettaglio quello che succede in tempo reale.
Dall’altra parte del mondo in poche ore: come fanno?
Da una tranquilla scrivania, di fronte a un computer, l’inviato o più spesso l’inviata, deve partire entro un’ora per Antakya (Turchia) per essere vicina al confine siriano quando inizieranno gli scontri nella città di Idali, come racconta Jørgen Skrubbeltrang. Non conosce l’Arabo, non conosce il Turco, non conosce il territorio, non ha un mezzo per viaggiare, l’aeroporto è chiuso, deve attraversare le montagne… L’uso del telefono o di Internet non è così scontato.
“Dove trovo un fixer affidabile? Chi abbiamo ad Antakya?” Questa è la prima cosa a cui pensa. La valigia è secondaria, di solito è già pronta per tutte le situazioni.
Chi è il fixer?
Il “risolutore”. Una traduzione più chiara è “facilitatore linguistico e mediatore culturale in una zona di guerra”. Ce lo spiega Milena Nebbia parlando del suo servizio dal Kurdistan iracheno. Il fixer è una persona del luogo, che conosce la lingua, soprattutto i dialetti locali incomprensibili ai più, quelli parlati dalla gente comune. Una persona che, vivendo in quelle zone, ne conosce ogni singola pietra, è al corrente di tutti i pericoli e si muove con agilità fra le macerie. Spesso si tratta a sua volta di un giornalista con i contatti giusti per ottenere le informazioni che l’inviata cerca, senza correre il rischio di commettere errori che possono mettere a rischio la loro vita. Ma può anche essere semplicemente un locale. Una persona qualunque che ha studiato un po’ di Inglese o Francese ed è in grado di eseguire la traduzione di qualunque parola detta e “non detta”. Una persona che sa dove e come trovare le attrezzature e i collaboratori giusti, dovendosi aggirare spesso in mezzo a case distrutte e pallottole che fischiano sopra la testa. Perché in una zona di guerra non è semplice trovare la carta su cui scrivere, figuriamoci un autista, una guida o una qualunque persona disposta a rischiare la propria vita – e quella dei propri cari -, per un’intervista o per l’assistenza fornita allo “straniero”.
Il fixer è più di un interprete
È più di un traduttore o di una guida. È “gli occhi e le orecchie” dei nostri reporter. È un personaggio cruciale. E non solo perché grazie a lui, alle sue traduzioni e ai suoi servizi possiamo ricevere notizie dall’estero “attendibili” e “immediate”. Ma perché da lui dipende l’incolumità dei nostri inviati. Tra il fixer e il giornalista il legame diventa strettissimo, intenso, quello che vivono insieme non è immaginabile, “è come essere stati in trincea insieme” ha detto Bobby Gosh, editorialista per CNN e World Editor di Time Magazine. Non è raro che al rientro in patria la reporter, il fotografo, il soldato di turno si preoccupino della sorte dei propri fixer e chiedano per lui o lei una maggiore protezione da parte dei governi occidentali.
Alla figura del fixer è stata dedicata una sessione del XII° Festival Internazionale del Giornalismo che si è tenuto a Perugia dall’11 al 15 maggio 2018, in cui si è discusso dell’importanza, della sicurezza e dei riconoscimenti economici di questi professionisti che non si occupano soltanto di traduzioni e interpretariato.